Séraphine de Senlis

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Nata da una famiglia di pastori e domestici, il suo talento fu scoperto nel 1912 dal collezionista d’arte Wilhelm Uhde. Mentre risiedeva nella città dove viveva la pittrice, Senlis (Oise), Uhde vide una natura morta raffigurante mele nella casa dei vicini e rimase esterrefatto nel sapere che Louis, la sua donna delle pulizie, fosse un’artista. Con il patrocinio di Uhde, Louis si impose come artista naïve del suo tempo. I lavori di Séraphine sono costituiti prevalentemente da arrangiamenti floreali riccamente fantasiosi. La sua carriera fu relativamente breve. Nel 1930, tre anni dopo la prima esibizione, Uhde smise di comprare i suoi dipinti a causa della Grande depressione. Nel 1932 Séraphine fu ricoverata nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Clermont. Da allora smise di dipingere e morì nel 1942 a Erquery, nella dipendenza dell’ospedale di Clermont.

Ultima figlia di genitori anziani, rimasta orfana ancora piccola, a dieci anni è mandata a servizio. Sèraphine non conosce il conforto della famiglia, né di una propria casa. Dopo vent’anni passati nell’ombra protetta di un convento (di cui, negli anni del manicomio, denuncerà non creduta la violenza e i soprusi), nel 1906 si trasferisce a Senlis, città di pietra grigia e d’antico splendore (dimora dei re di Francia), ricca di giardini nascosti. Profondamente religiosa, inizia a dipingere perché così le è stato comandato dagli angeli. Ispirata dalla Vergine Maria canta salmi mentre di notte fabbrica i suoi colori e dipinge su tavole di legno. Conduce una vita doppia: i “lavori neri” di giorno, per guadagnarsi da vivere, e i “lavori colorati” di notte. Sono fiammeggianti piume che si animano di colore. Intrichi di fiori, foglie e frutti: una natura esplosiva che ha in sé il potenziale della decomposizione. Sono trionfi di lussureggianti glorie al cielo, ma anche inquietanti immagini riflesse di un tormento che la tela trattiene dall’abisso. Massiccia e sgraziata, sola ed emarginata, nasconde un meraviglioso che emerge dalle sue tele, via via sempre più grandi. I colori sono brillanti e hanno la lucidità delle pitture del rinascimento, frutto di segrete misture di succhi vegetali, argille e sangue di macelleria, mescolati all’olio sottratto ai lumini della chiesa. Poi, nell’autunno del 1912, arriva a Senlis Wilhelm Uhde, critico e mercante d’arte scopritore di Picasso e Braque, e Séraphine è incaricata di servirlo, di cerare i suoi pavimenti e di lavargli la biancheria. E’ un incontro che segnerà la vita di entrambi: alla serva darà la dignità della pittrice e al critico l’ispirazione per una nuova collezione. Uhde, tedesco e omosessuale, da quel momento entrerà e uscirà dalla sua vita, contribuendo, involontariamente, all’alterazione di un precario equilibrio e all’amplificazione di un male trattenuto nell’ombra da una pittura visionaria. Séraphine, divenuta ossessivamente tutt’uno con le sue creazioni, si perde a poco a poco mentre diventa pittrice riconosciuta, alterata da aspettative di fama e affetta da manie di grandezza, conseguenza anche di una repentina uscita da uno stato di profonda indigenza. La crisi economica del ‘29, che si riflette presto anche in Europa, metterà in difficoltà Uhde che, non più in grado di far fronte ai suoi debiti, le chiederà una maggiore parsimonia e le annuncerà la necessità di rinviare la sua prima personale. E’ un duro colpo, Sèraphine dipinge sempre meno. Si isola sempre più e si perde nelle forme deliranti di una psicosi. Ossessionata da voci interiori, vaga per il paese inquietando una comunità che non è in grado di capire, di ascoltare e di accudire, fino all’internamento in manicomio nel febbraio del 1932.

Il libro di Françoise Cloarec, psicanalista e pittrice, restituisce la storia di Séraphine non secondo un modello narrativo ma con lo stile frammentario di una ricerca. Documenti e versioni, anche in contraddizione, contribuiscono alla creazione della trama di una vita di solitudine, di genio e di follia. Dal lavoro sporco, umile, all’espressione alta dell’artista. Un mondo interiore che contrasta e sopperisce ad un concreto e drammatico digiuno di affetti e di sicurezza; un equilibrio di forme e colori, che con il loro potenziale espressivo trattengono e ritardano l’esplosione del male. Se Martin Provost, nel suo film, si ferma al momento dell’internamento, cercando di rendere più lieve la rappresentazione della fine, François Cloarec prosegue, addentrandosi nell’orrore degli anni del manicomio. Ai documenti ufficiali intreccia gli scritti di Séraphine che, abbandonata la pittura,“ Sono troppo vecchia…non si fa arte in questi posti…”, fa fronte alla necessità di espressione scrivendo. Una scrittura povera e imprecisa che documenta però gli ultimi anni di una pittrice istintiva e visionaria, di una donna infelice che ha saputo creare un mondo di colori capace di farle vivere una vita parallela di grande intensità. La storia di una pittrice dimenticata; il ritratto di una donna che ha contrastato col colore i mostri che le crescevano dentro.

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